Visualizzazione post con etichetta città. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta città. Mostra tutti i post

giovedì 10 novembre 2016

Stia e i Conti Guidi “di Palagio”



Stia è situata ai piedi del Monte Falterona, alla confluenza dell'Arno con il torrente Staggia.  La  civiltà etrusca,  che ebbe in Arezzo una delle più potenti lucumonie, si estese fino a questi monti.  Sotto il dominio romano, il Casentino ospitò colonie romane e famiglie patrizie; ciò è attestato da vari toponimi. come Trinità, Prataglia, Selvamonda, Strumi, Pietrafitta e alcuni centri come le antichissime Pievi di Montemignaio, Romena, Stia,  Castel S. Niccolò, Buiano.

 Ci sono vari siti archeologici di epoca etrusca e romana visitabili in Cosentino, come l’Ara del tempio di Pieve a Socana, i  resti della Villa Romana nella cripta di Buiano (Poppi),  e il cosiddetto Lago degli Idoli sul Monte Falterona (Stia).Del periodo Romano nel Casentino abbiamo prove evidenti nelle monete d’oro di Foca, trovate a Faltona e Lierna, a Castel Castagnaio (Stia), e in antichi edifici destinati al culto.

Sicuramente all'epoca romana sono riferibili  i ritrovamenti effettuati fra Stia ed il monte Falterona (nelle località Monte di Gianni, Moiano, Mattonaia, Pian delle Gorghe, Poggio Castagnoli).  Abbiamo notizie dell'insediamento del cristianesimo nel Casentino soltanto dai secoli XI-XII, come dimostrano gli edifici delle Pievi di Stia, Romena, Vado e Montemignaio.

Nel mondo antico Stia fu un villaggio situato lungo la romana Via Maior, che collegava il Casentino a San Godenzo, nel Mugello.  Il toponimo deriva sicuramente  dal Latino stadium, antica unità di misura romana, poi volgarizzato in staggio,  staio, e staja,  per contrazione dal nome del torrente Staggia. La cosa è confermata dall’Archivio Glottologico Italiano:

“Stia e Staggia nel Casentino furono certo Staja. Divinità romane dedicate a un culto delle acque furono trovate in varie località del Casentino, sul Monte Falterona nel Lago degli idoli, e presso il laghetto ormai prosciugato di Ciliegeta, che si trova nei pressi di Stia”. 

Per quanto riguarda il Medioevo, le prime notizie sul villaggio di Stia si trovano nel Regesto Camaldolese relativamente agli anni  1053-1054, dove è citata la Plebe S. Mariae de Staia; successivamente, nel 1093, troviamo citato un Casale de Stia. Nel Medioevo Stia si sviluppò come mercatale (mercato) della Contea di Porciano e residenza del ramo dei Conti Guidi detti anche di Palagio,  per ricordare la costruzione, avvenuta nel 1230, di una residenza signorile sulle rive del torrente Staggia.

Nel 1402  il villaggio passò sotto il dominio di Firenze col nome di Palagio Fiorentino. E. Repetti  narrò la storia di Stia in questo modo:

“Fu il castello vecchio di Stia con il suo territorio annesso tra i feudi dei Conti Guidi del ramo di Porciano, che abitarono nel  palazzo in Stia vecchia detto il Palagio [...] che poi  fu detto Palagio Fiorentino. Una delle memorie superstiti in cui è ricordato il ramo dei Conti  di Stia insieme alla sua pieve furono dovute agli Annalisti Camaldolesi, [...] in un atto di donazione scritto nell' aprile di detto anno nella camera del pievano di Santa Maria situata in Stia nel Casentino [...]. Dal  documento apprendiamo che il donatore fu un Conte Guido fu Alberto; che i conti di Porciano fossero anche di Palagio o di Stia vecchia lo afferma anche lo storico Fiorentino  Scipione Ammirato che rammenta un Conte Porciano al servizio dei Fiorentini e comandante di un corpo di cavalleria il quale dallo stesso scrittore  venne designato col titolo di Palagio”. La storia di Stia in seguito rimase   legata  ai Medici e terminò con il granduca Giangastone. nel 1737, quando gli successe la dinastia dei Lorena, che durò fino all'unità d'Italia.

Sotto l’aspetto storico-artistico, Stia vanta manufatti di origine medievale di tutto rispetto. In piazza Tanucci è situata la Pieve di Santa Maria Assunta, di stile romanico e risalente  al XII secolo,  dove sono conservati alcuni quadri di ragguardevole valore artistico, come il trittico dell’Annunciazione di Bicci di Lorenzo, degli inizi del XV secolo, una Madonna col Bambino della scuola di Cimabue, una terracotta bianca invetriata di Andrea della Robbia, ed un ciborio in terracotta policroma invetriata, del XVI secolo,  opera attribuita alla bottega dei Della Robbia.



Fonti:

Archivio Glottologico Italiano, 1896, p. 397.

Dizionario Geografico, Fisico, Storico della Toscana ..., Firenze, 1843, Vol. V,  p. 468.








sabato 29 ottobre 2016

Pisa, città etrusca



Le origini di Pisa sembrerebbero ancora oggi molto incerte. Esistono infatti tesi su una sua possibile origine ligure o greca, ma la storiografia contemporanea ha fugato molti dubbi circa le origini della città, che sarebbe nata dall’aggregazione di alcuni villaggi etruschi alla confluenza del fiume Auser nell’Arno. Di certo sappiamo che i più antichi ritrovamenti archeologici risalgono all’età del Bronzo, e abbiamo notizia di insediamenti etruschi databili tra il V e il VII secolo a.C. Per via dell’incertezza circa le origini, in passato vi furono dubbi consistenti intorno all'etimologia del toponimo Pisa. C’è però il dato storico che Pomponio Mela assegnò un’origine etrusca a Pisa: “Pisae Etrusca et loca et nomina (o flumina) ” [Pisa è etrusca per luoghi e nomi (o fiumi)] (P. Parroni). Alcuni codici, al posto di “nomina”, riportano la lezione “flumina”, ma P. Parroni ha preferito la lezione “nomina”, tramandata da Vibio Sequestre, al posto di “flumina” proposta da Cluverius. ( Pomponii Melae De Chorographia). Oggi è pressoché universalmente accettata l’ipotesi per cui il toponimo  Pisa significherebbe luogo palustre. L’idea fu ventilata già nel XIX secolo da E. V. Montazio ,il quale osservò:

Mazzocchi, dopo aver citato in Eusebio l’opinione che la voce Pisos  altro non denota se non luogo acquoso, denominazione giusta, tanto per Pisa in Elide che per la Toscana,  fa risalire l’etimologia di questo vocabolo al verbo ebraico significante  pus, augescere,  exundare,  il cui nome vale quanto luogo palustre, e da ciò trae motivo di ritenere ambo quei nomi spettare non ai greci ma  ai Tirreni orientali” (Annali di Pisa).  Si sottolinea, tra parentesi,  che Tyrreni sostituiva a volte il più diffuso termine Tusci [Etruschi].  Più recentemente l’ipotesi è stata suffragata da Pietro Dini, per il quale il toponimo latino Pisae ( in greco Pisa, Pisai, Peisa e Peisai) è un nome di matrice indoeuropea, con il significato sia di acque stagnanti sia di acque correnti (P. Dini).

Dal punto di vista strettamente storico, l’origine etrusca di Pisa è stata sostenuta con ottimi argomenti ed adeguati riferimenti archeologici da S. Bruni, il quale si batté per molti anni perché l’origine etrusca di Pisa fosse definitivamente riconosciuta dalla critica:

“La grande stagione etrusca di Pisa, più volte ricordata dalla stessa tradizione letteraria greca e latina, era ancora nella seconda metà del XVIII secolo – e lo sarà ancora per molto essendo conquista assai recente, legata com’è alla serie di scavi e scoperte effettuati nell’area della città nel corso dell’ultimo trentennio – praticamente sconosciuta” (S. Bruni).

Se infine consideriamo, sia pure con le debite differenziazioni tra epoche molto diverse tra loro sotto l’aspetto ambientale, che gran parte della storia alto-medievale di Pisa ruota attorno a tutta una serie di impaludamenti, l’ipotesi di un toponimo che rispecchi l’idea di una zona “ricca d’acque” ha una sua indubbia consistenza storica oltre che linguistica (M. Baldassarri-G. Gattiglia).

In età romana Pisa si schierò decisamente con  Roma nella sua politica espansionistica, ed il suo sistema portuale fu spesso usato come base per le flotte romane. Pisa diventò municipium nel I secolo a.C. e colonia  sotto l’imperatore Augusto. Dopo la caduta dell’impero romano,  Pisa fu governata sicuramente dai Bizantini e poi, secondo una tradizione incerta,  dai Longobardi, che l’avrebbero conquistata con Rotari verso la prima metà del VII secolo. Anche su questo le tesi divergono, perché secondo parte della storiografia,  parrebbe che Pisa fosse rimasta immune dalla conquista [Ceccarelli Lenut]); però, nonostante la mancanza di fonti scritte, l’archeologia ha dimostrato la presenza di tombe longobarde a Pisa. Nell’XI secolo Pisa fu una delle  Repubbliche Marinare più potenti in Italia, e la flotta  pisana  assicurò alla città il dominio del Mediterraneo occidentale per gran parte del Medioevo.  Tra il XII e il XIV secolo Pisa, grazie alla sua importanza strategica e militare, si ingrandì inglobando numerosi villaggi intorno ad essa, e ciò comportò la creazione di nuove strade e piazze, nonché delle tipiche Case-Torri, appartenenti alla nobiltà e al prospero ceto mercantile della città, che avviò Pisa a un grande sviluppo edilizio ed economico.

La crescita della città si arrestò quando Pisa fu  conquistata da Firenze, che la dominò per quasi tutto il XV secolo. Ciò significò una inevitabile perdita di importanza della città; però, sotto il dominio di Firenze, Pisa fu anche  notevolmente fortificata sul  mare con opere di celeberrimi ingegneri militari come Filippo Brunelleschi. Verso la fine del XV secolo Carlo VIII di Francia sottrasse Pisa a Firenze,  dandole ampia  autonomia di governo, che durò fino per tutta la prima decade del XVI secolo, quando la città fu di nuovo conquistata da  Firenze, che tuttavia fece  ricostruire le fortificazioni pisane distrutte nel corso delle precedenti guerre.

Dai documenti appare chiaro che  la città sembrò soffrire di un rapido decadimento fra il XVII e il XVIII secolo, che fu superato  soltanto sotto il governo del  Granduca Pietro Leopoldo d'Asburgo, che ne modernizzò le infrastrutture viarie e  molti palazzi. Nel XIX secolo Pisa conobbe un ulteriore sviluppo urbano  e la creazione di importanti opere pubbliche , come la Piazza Vittorio Emanuele (O. Niglio). In ogni caso, il Medioevo fu  certamente il periodo di maggior sviluppo economico, politico ed artistico  di Pisa, come del resto dimostra il centro storico, ricco di  edifici religiosi e civili che richiamano i nomi di Nicola e Giovanni Pisano.  Pisa vanta oggi numerosissime istituzioni culturali che conservano opere di eccezionale valore artistico.

Fonti:

Annali di Pisa dalla sua origine fino all'anno 1840, compilati da E. V. Montazio, Lucca, 1840, Vol. I, p. 18.

M. Baldassarri-G. Gattiglia, “Tra i fiumi e il mare. Lo sviluppo di Pisa nel suo contesto ambientale tra VII e XV secolo”, in V Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, 2009,  pp. 181-187.

S. Bruni, “La domus nobìilium de Balneum …”, in Concordi limine maior, ETS, 2014, p.14. Dello stesso S. Bruni, “Pisa Etrusca et loca et flumina … sed etiam maria, Appunti sulla vicenda di Pisa etrusca”, in Pisa e il Mediterraneo …, a cura di M. Tangheroni, 2003.

P. Dini, “Sul toponimo Pisa in una prospettiva indoeuropea”, in AION linguistica, 16, pp. 283-316.

O. Niglio, “Tesori militari e ipotesi di trasformazione nel nuovo assetto urbano della città si Pisa”, in Città e Storia, IV, 2009, 2,  pp. 417 sgg.

Pomponii Melae De Chorographia libri Tres, a cura di P. Parroni, Roma, Edizioni di storia e Letteratura, 2005  [ I Ediz. 1984], p. 146, righe 73-74 e apparato critico.

Ceccarelli Lenut, Un castello e la sua storia. Montescudaio nel Medioevo (2009): http://www.rmoa.unina.it/852/1/RM-Ceccarelli-Montescudaio.pdf.

lunedì 24 ottobre 2016

Adrano (Sicilia), tra Greci, Romani, Arabi e Normanni



Adrano è l'antica Adranòn, detta in latino Hadranum. Il territorio di Adrano è di antico popolamento; infatti, gli scavi archeologici condotti  da Paolo Orsi e poi proseguiti nel corso degli anni hanno portato alla luce alcuni villaggi , composti da capanne protette da trincee e alcune necropoli a fossa ovale, che indicano chiaramente la tendenza delle antiche popolazioni sicule a insediarsi nelle zone di pianura in vicinanza dei fiumi. In particolare, l'insediamento umano nel territorio di Adrano è rappresentato dai resti di un villaggio di tipo  castellucciano. Secondo gli studiosi i villaggi castellucciani erano costruiti in luoghi “facilmente difendibili, con opere costruite per l'accesso con un impianto studiato su speroni rocciosi” (M. Coppa).

Diodoro Siculo e altri autori antichi  identificarono il sito di Adrano con quello dell’antica città di Inessa, ma la cosa è molto dubbia, perché ci sono almeno due siti in cui potremmo identificare  Inessa:

“ Alcuni proposero la identificazione di Inessa con Adrano; il Savasta  pose invece Etna-Inessa a Paterno, e metteva in evidenza la sua ubicazione tra Centuripe e Catania” ( G. Rizza). Un contributo decisivo per la scoperta di insediamenti umani nel territorio di Adrano fu quello di P. Orsi (Adrano e la città sicula del Mendolito) e della Soprintendenza ai beni archeologici di Siracusa e di Catania a partire dagli anni ‘60. Tutta la zona di Adrano fu coinvolta nella politica espansionistica di Siracusa , che ottenne la completa egemonia della Sicilia centro orientale. Nel quadro della loro conquista, i Siracusani fondarono una nuova colonia, chiamata Adrano. Il fondatore della città fu Dionisio nel 400 a. C., che poi i Romani chiamarono Hadranum, situata sul sito fortificato della rocca di Giambruno, dove esisteva il santuario di Adranòs,  una tra le più importanti divinità dei Siculi.

Di qui dunque deriva l'etimologia della città, che ovviamente è riferita al culto del dio Adranòs, che, secondo la leggenda di fondazione, ebbe anche una parte di rilievo nella storia della città. Infatti essa era travagliata dalle lotte interne tra Timoleonte e Iceta:

 “[...] Adrano è presentato come un dio guerriero, la cui statua di culto suda miracolosamente e agita la lancia all'arrivo del condottiero corinzio, segnalando così agli Adraniti, indecisi se prendere partito per Timoleonte o per il tiranno Iceta, quale sia la giusta decisione da prendere, cioè schierarsi dalla parte del vincitore corinzio. Adranòs, nella sua qualità di Phylatton Daimon (divinità protettrice) interviene poi in un altro luogo  salvando miracolosamente la vita a Timoleonte, che stava per essere assassinato da due sicari di Iceta, mentre sacrificava sull'altare del dio. L'azione di Adranòs è coerente con la sua capacità di identificare e punire coloro che si presentano alla sua sacra dimora in condizioni di empietà o con sacrileghe intenzioni. Plutarco inoltre ci segnala la diffusione del culto anche in altri villaggi dell'isola, diffusione che se da un lato appare […] come l'esito di un confronto politico-ideologico tra il gruppo etnico Siceliota e i Siculi ” (N. Cusumano).

La città di Adrano si scontrò duramente con i Romani, opponendosi alla loro conquista nel 263 a. C., al tempo della prima guerra punica, subendo un pesante assedio che culminò con la totale distruzione della città. Le ricerche archeologiche documentano con chiarezza i segni ed il grado di distruzione inferto alla città greca, di cui rimangono anche i resti della successiva centuriatio romana, che sembrano estendersi fino al Mendolito ed ad altre contrade. La città fu dotata dai Romani di una importante rete stradale, con funzioni di carattere militare ed economico,  di cui parlano l' Itinerarium Antonini e la Tabula Peutingeriana. Il cosiddetto Ponte dei Saraceni, che ingloba in sé elementi di stile tipicamente romano dimostra inoltre che Adrano ritornò nell'Alto Medioevo ad essere una importante roccaforte araba per il controllo strategico degli accessi e degli itinerari  lungo il fiume Simeto.

Nella distinzione amministrativa dei  musulmani, Adrano vide pertanto rafforzata ancora una volta la sua funzione militare. Per i conquistatori arabi il territorio di Adrano fu importante non solo dal punto di vista militare; esso era infatti ricco di acque fluviali e sorgive, e ciò diede un particolare impulso alla fondazione di nuovi villaggi e casali. L'apporto culturale degli Arabi fu notevole sotto l'aspetto dell'agricoltura; essi infatti introdussero nuovi tipi colture come il lino , il cotone gli ortaggi, gli agrumi, il gelso, la canna da zucchero,  il riso, nonché importanti  tecniche agricole per  l'irrigazione dei campi.

La crisi dell’ insediamento arabi di Adrano iniziò con l’avvento in Sicilia dei Normanni. Occupata Messina e le valli dell'alto Simeto e del Salso, i Normanni avanzarono verso Catania, incontrando la resistenza dei presidi dei centri agricoli arabi situati lungo il fiume Simeto. Adrano-Adernò fu conquistata dai Normanni dopo la caduta di un importante casale, chiamato Bulichiel. Nella ripartizione della Sicilia in diocesi voluta da  Ruggero, Adrano entrò a far parte della Contea di Catania, ed essa fu infeudata al vescovo Angerio. In seguito fu assegnata ai membri della famiglia reale, facendo capo ad un vasto territorio comprendente Centorbi e confinante a Sud-est con le terre di Paternò.

Nel corso  della minore età di Ruggero II, la città ed il suo territorio furono oggetto di una vasta operazione di infeudamento delle terre più fertili della Sicilia orientale ai nobili di origine Normanna, spesso imparentati con la regina Adelasia, sotto la reggenza della quale si determinò un largo fenomeno di immigrazione di coloni normanni provenienti dall'Italia settentrionale,  i cosiddetti Aleramici e i Longobardi (detti “Lombardi”). Al popolamento del territorio da parte dei feudatari seguì il richiamo di coloni nelle terre dei monasteri  latini e basiliani (ossia cristiani di rito greco). Come dicevamo, la giurisdizione feudale fu esercitata da famiglie direttamente legate alla dinastia normanna, e si estendeva su un vastissimo territorio comprendente, oltre ad Adrano, anche  Centorbi, Paternò, Capizzi, e altre località.

 Per la organizzazione del suo territorio, Ruggero necessitava di conoscere molto bene la situazione delle proprietà terriere. Di qui nacque l'opera di geografia più importante del Medioevo Siciliano, ovvero Il Libro di Re Ruggero, opera del geografo arabo Al Idrisi, che lo scrisse per diretto incarico di Ruggero II. Secondo Al Idrisi, Adrano era un

 “grazioso casale, quasi una piccola città; essa sorgeva su una cima rupestre, era dotata di un mercato, di un bagno, di una bella rocca e abbondava di acque. Essa era situata ai piedi dell'Etna” (Al Idrisi).

Adrano  in seguito si ingrandì non solo grazie all'attività edilizia  avviata dai grandi signori feudali ma anche dai monasteri. In età moderna Guglielmo Raimondo Moncada nel 1501 ottenne dal sovrano una “licentia populandi” (licenza di ripopolamento). Tale privilegio, promulgato dalla Corona,  consentì a Guglielmo Francesco Moncada di ricostruire e ripopolare Adrano. Questo fenomeno di ripopolamento delle campagne fu un evento epocale per la Sicilia, ed è stato ampiamente studiato. In generale, possiamo affermare che esso fu

“il frutto di una scelta deliberata di popolamento da parte di un Signore; essa era poi sancita dall’autorità con la concessione di una ‘licentia populandi’. Con questo evento storico, la colonizzazione feudale visse la sua epoca aurea nei sessant’anni tra il 1590 e il 1650. Il secentesco ‘ritorno alla terra’ si caratterizzò dunque in Sicilia per questo imponente sforzo baronale di ripopolamento della campagna” (F. Benigno).

Tuttavia, rimarchiamo anche il fatto che la tendenza al ripopolamento delle campagne siciliane fu per la nobiltà locale non soltanto un colossale affare economico, ma anche uno strumento per il raggiungimento di un rango più elevato negli “onori nobiliari”, con un conseguente accrescimento anche del proprio potere politico. Le aumentate risorse economiche derivanti dalle attività industriali e commerciali produssero un processo di sviluppo della città. Le comunità religiose costruirono case, chiese e palazzi, e il fervore religioso legato alla Controriforma diede ampio spazio allo sviluppo dello stile Barocco, che determinò un'attività di costruzione e di ricostruzione degli edifici ecclesiastici grazie alla potenza economica raggiunta in questo periodo dalle istituzioni religiose.

Ad esso si accompagnò l'edificazione delle nuove residenze della nobiltà locale concepita per aderire agli stilemi dello stile Barocco sotto il profilo architettonico e funzionale, e per stabile una nuova armonia con l'impianto urbano. A ciò si aggiunse anche la ristrutturazione dei conventi e dei monasteri, che a partire dalla metà del XVI secolo furono edificati dentro la città. Le nuove costruzioni religiose e civili sorsero all'interno dei quartieri cinquecenteschi e medioevali,  nelle aree libere occupate da orti e giardini.

Dopo il lungo periodo di decadenza demografica ed economica conseguente al terremoto del 1693, che si protrasse anche nel secolo successivo, con l'avvento dei Borboni la città conobbe una nuova espansione edilizia. A partire dal 1750 il recupero demografico provocò l'ampliamento della città verso nord fino all'attuale piazza Leone XIII, con la costruzione del quartiere di S. Filippo, sorto intorno alla Chiesa costruita verso la fine del XVIII secolo; e anche altri ampliamenti furono effettuati nel corso del XIX secolo. Oggi Adrano, per i monumenti storici e il ricchissimo patrimonio archeologico ed artistico è una città con una forte vocazione turistico-culturale, cui si accompagna un paesaggio che sedusse tutti gli osservatori stranieri che, fino dal XIX secolo, ebbero la possibilità di visitare l’antichissima Adranòn.


Fonti:

Al Idrisi, Il libro di Ruggero, a cura di  M. Amari, Roma, Salviucci, 1883, p. 56.

F. Benigno, “Vecchio e nuovo nella Sicilia del Seicento: il ruolo della colonizzazione feudale”, in Studi storici, 1986, n. 1, p. 95.

M. Coppa, Storia dell'urbanistica: Dalle origini all'ellenismo, Torino, Einaudi, 1969, Vol. II, pp. 593 sgg.
N. Cusumano, “Siculi”, in Ethne e religioni nella Sicilia antica, in Atti del Convegno internazionale ( Palermo, 6-7 dicembre 2000), Roma, 2006, pp. 129-130.

P. Orsi, “Adrano e la città sicula del Mendolito”, 1898-1909 (a cura di P. Pelagatti), in Archivio storico siracusano, p. 137.

G. Rizza, “Scoperta di una città antica sulle rive del Simeto: Etna-Inessa?” in La parola del passato, 1972, p. 473 nota.

G. Savasta,  Memorie storiche della città di Paternò, I, Catania, 1905, p. 26 sgg.




domenica 23 ottobre 2016

La scomparsa di Cuma


Il territorio dove fu fondata la colonia greca di Cuma fu abitato fin dall’età preistorica. Fra tutte le colonie greche della Magna Grecia, Cuma, situata sulla costa della Campania, di fronte all’isola d’ Ischia, fu certamente una delle più antiche. La sua fondazione  risalirebbe al 740 a. C.,  preceduta da quella di Ischia [ Pithekoùssa] che risalirebbe al 770 a. C. Ischia fu un notevole centro artigianale e commerciale greco con interessi verso l’Etruria ed il Lazio,  ed inoltre era ricchissima di giacimenti di argilla per la fabbricazione dei vasi.

 

 Secondo il mito,  i fondatori di Cuma sarebbero stati gli ecisti (fondatori) Ippocle e Megastene. I fondatori di Cuma trovarono un terreno particolarmente fertile ai margini della pianura campana, ma, pur continuando le loro tradizioni marinare e commerciali, i coloni greci di Cuma rafforzarono il loro potere politico ed economico anche grazie allo sfruttamento della terra,  estendendo il loro territorio a danno dei popoli confinanti.

 

L’etimologia di Cuma, potrebbe essere appunto legata a questa straordinaria fertilità del suolo, anche se la questione è molto complessa, perché si scontrano tradizioni mitiche differenti, ma al tempo stesso suffragate da testimonianze  per vari versi convincenti.  Senza entrare nel merito della diatriba, possiamo affermare che l’ interpretazione dell’etimologia di Cuma  è  basata  sulle testimonianze delle più antiche monete della città, che riportavano l’iscrizione “KVME” o “KVMAION”.  In breve sintesi, e secondo un’ipotesi largamente condivisa, il toponimo rimanderebbe al concetto di “fertilità”. Infatti, “Kvme” significherebbe “gonfiare”, o “essere gravida”:  il che rinvia al concetto di una “Dea Madre”, simbolo della fertilità: “colei che è ripiena del frutto del concepimento”. Questa etimologia sembra essere corretta ed estremamente convincente. 

 

Tuttavia, accanto ad essa, le antiche monete di Cuma ripetono anche l’effigie della dea Atena con l’elmo, il che ha comportato l’ipotesi di una correlazione tra “KVME” e il termine Amazzone (in greco “Kyme”), anche perché è stato ipotizzato che la  donna guerriera effigiata sulle monete fosse appunto “Kyme”, ossia una famosa amazzone della città di “Kyme” nell’Eolide in Grecia. Del resto, è stata sottolineata anche la “dimestichezza” dell’antica Cuma con le leggende relative alle amazzoni, che erano famose nel mondo antico come fondatrici di città (  M. Caccamo Caltabiano).

 

Nel corso dei secoli, Cuma stabilì il suo predominio su quasi tutto il litorale della Campania, scontrandosi inevitabilmente con gli Etruschi di Capua,  che però furono sconfitti. In seguito i Cumani allargarono la loro colonizzazione interna, fondando una città dalla storia illustre, ossia  Neapolis ( l’attuale Napoli ). Con la  conquista Romana della Campania (IV secolo a. C.), Cuma fu altresì  insignita del titolo di  “civitas sine suffragio” [città senza diritto di voto]. Con l’avvento di Annibale, Cuma si schierò con i Romani, ai quali rimase fedele nelle lunghe battaglie contro i Cartaginesi, diventando infine “municipium”, termine con cui s’indicava una “città libera”.

.

Nel corso delle  le guerre civili che travagliarono Roma per molti anni, Cuma fu un importante avamposto militare dell’imperatore Augusto, che fece di essa  uno dei suoi luoghi preferiti di vacanza e di riposo.  Dopo la caduta dell’Impero Romano, nel periodo delle incursioni barbariche,  Cuma, posta su una collina inaccessibile e fortificata, resistette efficacemente alle incursioni dei barbari. Nel corso della guerra gotica, Cuma fu conquistata dai Bizantini, e in seguito dai Longobardi e dai Saraceni, diventando una loro roccaforte fino agli inizi del XIII secolo, quando furono sgominati.

 

Il declino, l’abbandono della città e la sua definitiva scomparsa furono dovuti all’impaludamento della zona; le paludi ricoprirono per secoli le tracce dell’antica civiltà  cumana, che fu riportata alla luce dagli scavi archeologici, con il ritrovamento di molti manufatti, come  collane in pasta di vetro, scarabei, una statuetta egiziana di maiolica verde, ed infine alcuni  “skyphoi” (vasi).  Le più antiche testimonianze della città  greca furono scoperti sull’acropoli, con edifici consacrati certamente ad Apollo “divinità protettrice di Cuma), e a Zeus. Nella prima metà del XX secolo fu fatta anche la scoperta della famosa grotta dove la celebre “Sibilla Cumana”, ispirata da Apollo, pronunciava i suoi vaticini inappellabili, che la resero famosa in tutto il mondo antico.

 

 

Fonti:

 

M. Caccamo Caltabiano, “KVME-ENKYMON. Riflessioni storiche sulla tipologia, simbologia e cronologia della monetazione cumana”, in Archivio Storico Messinese, III Serie. Vol. XXX. Anno 1979, pp. 19 sgg.