sabato 29 ottobre 2016

Pisa, città etrusca



Le origini di Pisa sembrerebbero ancora oggi molto incerte. Esistono infatti tesi su una sua possibile origine ligure o greca, ma la storiografia contemporanea ha fugato molti dubbi circa le origini della città, che sarebbe nata dall’aggregazione di alcuni villaggi etruschi alla confluenza del fiume Auser nell’Arno. Di certo sappiamo che i più antichi ritrovamenti archeologici risalgono all’età del Bronzo, e abbiamo notizia di insediamenti etruschi databili tra il V e il VII secolo a.C. Per via dell’incertezza circa le origini, in passato vi furono dubbi consistenti intorno all'etimologia del toponimo Pisa. C’è però il dato storico che Pomponio Mela assegnò un’origine etrusca a Pisa: “Pisae Etrusca et loca et nomina (o flumina) ” [Pisa è etrusca per luoghi e nomi (o fiumi)] (P. Parroni). Alcuni codici, al posto di “nomina”, riportano la lezione “flumina”, ma P. Parroni ha preferito la lezione “nomina”, tramandata da Vibio Sequestre, al posto di “flumina” proposta da Cluverius. ( Pomponii Melae De Chorographia). Oggi è pressoché universalmente accettata l’ipotesi per cui il toponimo  Pisa significherebbe luogo palustre. L’idea fu ventilata già nel XIX secolo da E. V. Montazio ,il quale osservò:

Mazzocchi, dopo aver citato in Eusebio l’opinione che la voce Pisos  altro non denota se non luogo acquoso, denominazione giusta, tanto per Pisa in Elide che per la Toscana,  fa risalire l’etimologia di questo vocabolo al verbo ebraico significante  pus, augescere,  exundare,  il cui nome vale quanto luogo palustre, e da ciò trae motivo di ritenere ambo quei nomi spettare non ai greci ma  ai Tirreni orientali” (Annali di Pisa).  Si sottolinea, tra parentesi,  che Tyrreni sostituiva a volte il più diffuso termine Tusci [Etruschi].  Più recentemente l’ipotesi è stata suffragata da Pietro Dini, per il quale il toponimo latino Pisae ( in greco Pisa, Pisai, Peisa e Peisai) è un nome di matrice indoeuropea, con il significato sia di acque stagnanti sia di acque correnti (P. Dini).

Dal punto di vista strettamente storico, l’origine etrusca di Pisa è stata sostenuta con ottimi argomenti ed adeguati riferimenti archeologici da S. Bruni, il quale si batté per molti anni perché l’origine etrusca di Pisa fosse definitivamente riconosciuta dalla critica:

“La grande stagione etrusca di Pisa, più volte ricordata dalla stessa tradizione letteraria greca e latina, era ancora nella seconda metà del XVIII secolo – e lo sarà ancora per molto essendo conquista assai recente, legata com’è alla serie di scavi e scoperte effettuati nell’area della città nel corso dell’ultimo trentennio – praticamente sconosciuta” (S. Bruni).

Se infine consideriamo, sia pure con le debite differenziazioni tra epoche molto diverse tra loro sotto l’aspetto ambientale, che gran parte della storia alto-medievale di Pisa ruota attorno a tutta una serie di impaludamenti, l’ipotesi di un toponimo che rispecchi l’idea di una zona “ricca d’acque” ha una sua indubbia consistenza storica oltre che linguistica (M. Baldassarri-G. Gattiglia).

In età romana Pisa si schierò decisamente con  Roma nella sua politica espansionistica, ed il suo sistema portuale fu spesso usato come base per le flotte romane. Pisa diventò municipium nel I secolo a.C. e colonia  sotto l’imperatore Augusto. Dopo la caduta dell’impero romano,  Pisa fu governata sicuramente dai Bizantini e poi, secondo una tradizione incerta,  dai Longobardi, che l’avrebbero conquistata con Rotari verso la prima metà del VII secolo. Anche su questo le tesi divergono, perché secondo parte della storiografia,  parrebbe che Pisa fosse rimasta immune dalla conquista [Ceccarelli Lenut]); però, nonostante la mancanza di fonti scritte, l’archeologia ha dimostrato la presenza di tombe longobarde a Pisa. Nell’XI secolo Pisa fu una delle  Repubbliche Marinare più potenti in Italia, e la flotta  pisana  assicurò alla città il dominio del Mediterraneo occidentale per gran parte del Medioevo.  Tra il XII e il XIV secolo Pisa, grazie alla sua importanza strategica e militare, si ingrandì inglobando numerosi villaggi intorno ad essa, e ciò comportò la creazione di nuove strade e piazze, nonché delle tipiche Case-Torri, appartenenti alla nobiltà e al prospero ceto mercantile della città, che avviò Pisa a un grande sviluppo edilizio ed economico.

La crescita della città si arrestò quando Pisa fu  conquistata da Firenze, che la dominò per quasi tutto il XV secolo. Ciò significò una inevitabile perdita di importanza della città; però, sotto il dominio di Firenze, Pisa fu anche  notevolmente fortificata sul  mare con opere di celeberrimi ingegneri militari come Filippo Brunelleschi. Verso la fine del XV secolo Carlo VIII di Francia sottrasse Pisa a Firenze,  dandole ampia  autonomia di governo, che durò fino per tutta la prima decade del XVI secolo, quando la città fu di nuovo conquistata da  Firenze, che tuttavia fece  ricostruire le fortificazioni pisane distrutte nel corso delle precedenti guerre.

Dai documenti appare chiaro che  la città sembrò soffrire di un rapido decadimento fra il XVII e il XVIII secolo, che fu superato  soltanto sotto il governo del  Granduca Pietro Leopoldo d'Asburgo, che ne modernizzò le infrastrutture viarie e  molti palazzi. Nel XIX secolo Pisa conobbe un ulteriore sviluppo urbano  e la creazione di importanti opere pubbliche , come la Piazza Vittorio Emanuele (O. Niglio). In ogni caso, il Medioevo fu  certamente il periodo di maggior sviluppo economico, politico ed artistico  di Pisa, come del resto dimostra il centro storico, ricco di  edifici religiosi e civili che richiamano i nomi di Nicola e Giovanni Pisano.  Pisa vanta oggi numerosissime istituzioni culturali che conservano opere di eccezionale valore artistico.

Fonti:

Annali di Pisa dalla sua origine fino all'anno 1840, compilati da E. V. Montazio, Lucca, 1840, Vol. I, p. 18.

M. Baldassarri-G. Gattiglia, “Tra i fiumi e il mare. Lo sviluppo di Pisa nel suo contesto ambientale tra VII e XV secolo”, in V Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, 2009,  pp. 181-187.

S. Bruni, “La domus nobìilium de Balneum …”, in Concordi limine maior, ETS, 2014, p.14. Dello stesso S. Bruni, “Pisa Etrusca et loca et flumina … sed etiam maria, Appunti sulla vicenda di Pisa etrusca”, in Pisa e il Mediterraneo …, a cura di M. Tangheroni, 2003.

P. Dini, “Sul toponimo Pisa in una prospettiva indoeuropea”, in AION linguistica, 16, pp. 283-316.

O. Niglio, “Tesori militari e ipotesi di trasformazione nel nuovo assetto urbano della città si Pisa”, in Città e Storia, IV, 2009, 2,  pp. 417 sgg.

Pomponii Melae De Chorographia libri Tres, a cura di P. Parroni, Roma, Edizioni di storia e Letteratura, 2005  [ I Ediz. 1984], p. 146, righe 73-74 e apparato critico.

Ceccarelli Lenut, Un castello e la sua storia. Montescudaio nel Medioevo (2009): http://www.rmoa.unina.it/852/1/RM-Ceccarelli-Montescudaio.pdf.

mercoledì 26 ottobre 2016

Spoleto tra il Cardinale Albornoz e Lucrezia Borgia



Le origini di Spoleto, situata lungo le pendici del colle Sant’Elia, risalgono alla fine dell’età del bronzo, come dimostrano alcuni resti di necropoli, ritrovati nel perimetro della città. Nel V-IV secolo a.C. gli Umbri occuparono il territorio, e la città diventò un Castrum (fortezza),con la costruzione delle cosiddette mura ciclopiche, composte da enormi massi di pietra calcarea di forma poligonale. Nel 241 a.C. Spoleto diventò una colonia, ed essa fu eretta dai Romani, per meriti di fedeltà, al rango di Municipium. Infatti, Spoleto dimostrò fedeltà a Roma soprattutto durante la seconda guerra punica, opponendosi con valore all’esercito cartaginese di Annibale, che avanzava verso Roma, dopo aver sconfitto i Romani nella battaglia del Trasimeno. Infatti Cicerone definì “Spoletinam Coloniam in primis firmam et inlustrem” [“ la colonia di Spoleto forte e illustre”] (Severus Minervius).



Riguardo all'etimologia di “Spoletium-Spoletum”, possiamo dire di essere in una situazione di attesa. Cominciamo, per dovere di informazione, dall'ipotesi proposta nel XVIII secolo da Severus Minervius, il quale faceva derivare il nome della città dal termine latino Spolia: “ 'Spoletium' plures dici a dividendi spoliis...” [“ Molti sostengono che il nome di  Spoleto deriva dal fatto che essi si dividevano le spoglie dei nemici in guerra”]. Oggi gli studiosi sembrano concordemente orientati ad accettare l'ipotesi che Spoletium abbia le sue radici nell'etrusco spur, che significa appunto città. A. Morigi, infatti, scrive: “[...] La tradizione antiquaria leggeva nel toponimo la somma dei termini Greci Spao (staccare) e lithos (pietra), per rimarcare la forma di rupe staccata dal retrostante Monteluco di Colle Sant'Elsa. Una seconda ipotesi potrebbe coincidere con una radice etrusca Spur e il corrispettivo locativo spur-ethi per sottolineare l'ambito urbano [...]” (A. Morigi).

I resti che testimoniano la presenza romana nella città sono molti, come l’Arco di Druso e Germanico (23 a.C.), il Teatro Romano (I secolo a.C.) e la casa di Vespasia Polla, madre di Vespasiano. Nel IV a.C. secolo Spoleto diventò  sede episcopale, come testimonia la basilica di San Salvatore, una delle più antiche chiese della città. Dopo la caduta dell’impero romano, i Longobardi conquistarono Spoleto, che diventò  capitale di uno dei più vasti e potenti ducati dell'Italia mediana. Dopo la dominazione  Longobarda, il Ducato passò ai Franchi, sotto il cui dominio iniziò un progressivo declino della città.

Secondo la tradizione, nel 1155 Spoleto fu distrutta da Federico Barbarossa. In età Comunale, la città fu contesa tra l'Impero e la Chiesa, a cui andò soggetta sotto il papato di Innocenzo III nel 1198 e, definitivamente, nel 1247. Nel corso di questo periodo di dominio dello Stato della Chiesa, fu costruita una seconda e più ampia cinta muraria, entro la quale si svilupparono le strutture urbane medioevali, che le diedero un aspetto di rocca fortificata. Trasformatasi in Comune, Spoleto fu dilaniata al suo interno dalle lotte fratricide tra Guelfi e Ghibellini, finché, con l'azione decisa del Cardinale Albornoz, le dispute furono sedate. Grazie al potente prelato, essa ebbe anche un notevole incremento delle fortificazioni; infatti il Cardinale Egidio Albornoz incaricò Gattaponi,  famoso ingegnere militare, di costruire la cosiddetta Rocca di Albornoz, che diventò la sede dei governatori della città.

Alla fine del XV secolo, Spoleto fu governata da un famoso esponente della Potente famiglia dei Borgia,  Lucrezia Borgia, figlia di Papa Alessandro VI Borgia e sorella di Cesare Borgia, figura fondamentale del Principe di Machiavelli. Nel corso del periodo napoleonico, Spoleto fu sottratta al diretto dominio del Papa e governata come una Repubblica strettamente legata ai Francesi, assumendo un ruolo di una certa rilevanza, come capoluogo del Dipartimento del Trasimeno.

Dopo la Restaurazione essa fu restituita allo Stato della Chiesa, fino al periodo Risorgimentale, che vide la città molto impegnata nelle lotte per l'Unificazione d'Italia. Essa, nel 1860 entrò quindi nel Regno d'Italia. Oggi la città è un importante centro turistico, di alto valore culturale, aperta ad iniziative che l'hanno fatta conoscere a livello internazionale.

Fonti:

A Morigi, Spoleto Romana: Topografia e Urbanistica, Archaeopress, 2003, p. 6.

“Severi Minervii De Rebus Gestis atque Antiquiis Monumentis Spoleti. De Origine et nomine Spoletinae Urbis”, in Documenti Storici Inediti, a cura di Achille Sansi, Foligno, 1879, p. 15.


martedì 25 ottobre 2016

Italia Sacra: da “Campus Malduli” a Camaldoli



L'Eremo di Camaldoli è situato a oltre 1000 metri sul livello del mare, e può  essere raggiunto da vari luoghi, come  Badia Prataglia,  Serravalle di Bibbiena,  Poppi  e  Pratovecchio; esso è completamente circondato di abeti, che danno al luogo un fascino mistico di notevole suggestione. Il Monastero è raccolto attorno a un chiostro di stile montano, ovvero con due ordini di archi a tutto sesto, poggianti su colonne con capitelli ionici. Due ordini sono orientati verso il sole, mentre gli altri due esposti a Est e a Nord sono aperti da finestre ad arco. Al piano superiore vi sono i corridoi che corrono lungo il perimetro del chiostro e nel quale si trovano le celle dei monaci. Il refettorio del 1609 è caratterizzato dal manierismo toscano ed è arredato da tavoli e stalli in noce. La parete di fondo è occupata da una grande tela dipinta nel 1611 da Cristoforo Roncalli (Il Pomarancio).

L’ultima esperienza di San Romualdo, prima di raggiungere la sua cella nell’Eremo vicino al monastero di Valdicastro dove morirà, fu il  Campus  Malduli,  dove egli formerà cinque monaci alla vita eremitica, dando così vita al nucleo del Sacro Eremo di Camaldoli, famosa per il monastero costruito sul terreno donato dal Conte di Arezzo Maldolo a san Romualdo. Quel terreno era detto Campus Malduli, e per corruzione dialettale Camaldoli:

“Enitet  ille locus qui dicitur Campo Malduli, campus speciosus et amabilis, ubi sunt septem purissimi fontes et amoena virecta” [Spicca  quel luogo che è detto Campo Malduli, un campo bello e amabile, dove scorrono sette fonti limpide e ci sono ameni luoghi verdeggianti] ( G. Vedovato).

Alcuni studiosi ritengono che il nome derivi dall'amenità del luogo, definito altresì come Campus Amabilis, come del resto leggiamo in una Bolla papale, dove Camaldoli è appunto detto Campus Amabilis:

 “Girolamo da Piaga e il padre Agostino Fiorentino, e  Arnoldo Vion pretendono che il nome di Camaldoli derivi da un certo Maldolo,  che donò il campo a San Romualdo per fondare qui il suo cenobio; cosicché il luogo fu detto Campum Malduli e Casam Malduli e poi Camalduli. Ma il Sommo Pontefice Alessandro II nella  costituzione data a quest' ordine religioso pare che  derivi il nome da Campus Amabilis, che così era chiamato prima che  San Romualdo si stabilisse in quel luogo. Il titolo di tale costituzione data in Lucca il 29 ottobre 1072 è questo:

Approbatio Congregrationis monacorum Eremitarum Camaldulensium alius Campi Amabilis Ordinis sancti Benedirti (Approvazione della Congregazione dei monaci eremiti camaldolesi altrimenti detto Campo Amabile dell’Ordine di San Benedetto)”. Non è del tutto inverisimile, si legge ancora nei Fasti della chiesa che il campo dato da Maldulo al nostro Santo fosse definito amabile.  ( I Fasti della chiesa nella vita dei santi).

L’etimologia è suggestiva, tuttavia è più probabile che il toponimo si riferisca al nome del donatore, ovvero al Conte Maldolo, da cui Campus Maldoli [=Camaldoli]. Romualdo di Ravenna arrivò nel territorio di Arezzo verso la fine della sua vita; qui le sue idee relative a una riforma morale della chiesa si incontrarono favorevolmente con quelle del Vescovo di Arezzo, Teodaldo di Canossa [1023-1036], su suggerimento del quale S. Romualdo fondò, intorno al 1027, l'Eremo di Camaldoli.

Nella Consuetudo Camaldulensis la fondazione del Monastero fu raccontata in questi termini:

Notificamus itaque vobis, fratres carissimi, quod predicta Camaldulensis heremus a sancto patre Romualdo heremita, Santo suggerente Spiritu, precatu reverentissimi  Teodaldi Aretini episcopo, edificata est cum quadam basilica, quam predictus  episcopus in honore sancti Salvatoris  consecravit  millesimo XXVII anno ab eiusdem incarnationis [ Vi informiamo, fratelli carissimi, che il predetto eremo di Camaldoli, fondato con una basilica dal santo padre Romualdo, per volontà dello Spirito Santo e del reverendo Vescovo Teodaldo di Arezzo, fu consacrato dal predetto Vescovo nell’anno 1027 dall'incarnazione di Cristo] (L. Licciardello).

 Come dicevamo sopra, San Romualdo istruì a Camaldoli cinque monaci, che poi lasciò per finire la sua vita a Valdicastro. Egli impose ai confratelli, che lo riconobbero come loro guida spirituale, una regola che si ispirava fortemente a quella benedettina, poi perfezionata nel corso dei secoli. La nascita giuridica dell'Ordine Camaldolense risale alla Bolla  di Papa Pasquale II [ Gratias Deo, 1113 (o 1114)]:

Edit praeditus Paschalis episcopus servus servorum Dei venerabili filio Guidoni  priori [...]: Praecipimus ac praesentis decreti auctoritate sancimus ne cuiquam omnino personae clerico monacho layco cujuscumque ordinis aut dignitatis praesentibus aut futuris temporibus liceat congregationes illas et loca illa quae Camaldulensis eremi sive coenobii disciplinam et ordinem susceperunt ...  ullomodo subjectione et unitate dividere [...]   [Così parlò il Predetto Papa Pasquale, Servo dei servi di Dio al Venerabile figlio Guidone, Priore di Camaldoli: Ordiniamo che a nessuno, chierico, monaco e laico di qualsiasi condizione e dignità, sia permesso oggi e nei tempi futuri di sottomettere o dividere i luoghi dove sorge l'Eremo di Camaldoli] (Monumenta Historiae Patriae).

Dopo il 1027, con la morte di Romualdo il monastero–eremo di Camaldoli diventò la Casa Madre di una congregazione che accrebbe il proprio patrimonio fino al XIII secolo. Le fonti che raccontano la nascita dell’Eremo di Camaldoli sono varie e contrastanti, ma sicuramente la più autentica e attendibile è  il diploma con cui Teodaldo di Canossa, vescovo di Arezzo nel 1027,  donava al venerabile eremita Pietro Dagnino, discepolo di Romualdo,  l’oratorio di San Salvatore. Così si formò una congregazione monastica che fu riconosciuta nel 1027e dalla Bolla Nulli Fidelium di Papa Alessandro II, successivamente riconfermata da Papa Gregorio VII. Nel 1080 furono redatte le Constitutiones Camaldolesi del Beato Rodolfo [morto nel 1089]. Nel corso del  pontificato di  Papa Alessandro III (1159-1181), Camaldoli si troverà ad affrontare le prime difficoltà dovute alla sua vasta “signoria feudale”, contestata dalla Diocesi, dai signori vicini e anche dagli stessi sudditi. Nel 1187 oltre alle conferme su diritti e proprietà da parte del papa Clemente III (1181-1191), anche l’Imperatore Enrico VI ( morto nel 1197), oltre a numerose donazioni, concesse l’immunità all’Eremo di Camaldoli.

In epoca umanistica Camaldoli diventò un centro culturale di primaria importanza, mentre le risorse forestali furono una fonte fondamentale per l'arricchimento dell'Ordine Camaldolese. L'epoca napoleonica, che comportò la soppressione di molti ordini religiosi, nonché la dispersione di numerose opere d'arte, segnò il declino dell'ordine Camaldolese, che continuò anche dopo l'Unità d'Italia, quando i beni dell'Ordine furono confiscati dallo Stato. Un rinnovato vigore dell'Ordine fu registrato verso la seconda metà del XX secolo e oggi Camaldoli costituisce uno dei punti nodali del turismo spirituale e culturale dell'intera Italia ( Codice forestale Camaldolese).

Fonti:

“Codice forestale Camaldolese. La regola della vita eremitica, ovvero le Constitutiones Camaldulenses”, a cura di  Raoul Romano,  Roma, INEA, 2010, Vol. I, pp. 67-89.

 I Fasti della chiesa nella vita dei santi ..., Milano, 1824, Vol. II, pp. 246-247 nota 1.

L. Licciardello, Consuetudo Camaldulensis. Rodulphi Constitutiones Liber Eremitice Regule, Firenze,  2004, pp. 2-4.

Monumenta Historiae Patriae, 1861, Tomo X, p. 191 e  G. Vedovato, Camaldoli, pp. 72-76.

G. Vedovato, Camaldoli e la sua congregazione dalle origini al 1184, Cesena, Storia e documentazione,  p. 127.


lunedì 24 ottobre 2016

Adrano (Sicilia), tra Greci, Romani, Arabi e Normanni



Adrano è l'antica Adranòn, detta in latino Hadranum. Il territorio di Adrano è di antico popolamento; infatti, gli scavi archeologici condotti  da Paolo Orsi e poi proseguiti nel corso degli anni hanno portato alla luce alcuni villaggi , composti da capanne protette da trincee e alcune necropoli a fossa ovale, che indicano chiaramente la tendenza delle antiche popolazioni sicule a insediarsi nelle zone di pianura in vicinanza dei fiumi. In particolare, l'insediamento umano nel territorio di Adrano è rappresentato dai resti di un villaggio di tipo  castellucciano. Secondo gli studiosi i villaggi castellucciani erano costruiti in luoghi “facilmente difendibili, con opere costruite per l'accesso con un impianto studiato su speroni rocciosi” (M. Coppa).

Diodoro Siculo e altri autori antichi  identificarono il sito di Adrano con quello dell’antica città di Inessa, ma la cosa è molto dubbia, perché ci sono almeno due siti in cui potremmo identificare  Inessa:

“ Alcuni proposero la identificazione di Inessa con Adrano; il Savasta  pose invece Etna-Inessa a Paterno, e metteva in evidenza la sua ubicazione tra Centuripe e Catania” ( G. Rizza). Un contributo decisivo per la scoperta di insediamenti umani nel territorio di Adrano fu quello di P. Orsi (Adrano e la città sicula del Mendolito) e della Soprintendenza ai beni archeologici di Siracusa e di Catania a partire dagli anni ‘60. Tutta la zona di Adrano fu coinvolta nella politica espansionistica di Siracusa , che ottenne la completa egemonia della Sicilia centro orientale. Nel quadro della loro conquista, i Siracusani fondarono una nuova colonia, chiamata Adrano. Il fondatore della città fu Dionisio nel 400 a. C., che poi i Romani chiamarono Hadranum, situata sul sito fortificato della rocca di Giambruno, dove esisteva il santuario di Adranòs,  una tra le più importanti divinità dei Siculi.

Di qui dunque deriva l'etimologia della città, che ovviamente è riferita al culto del dio Adranòs, che, secondo la leggenda di fondazione, ebbe anche una parte di rilievo nella storia della città. Infatti essa era travagliata dalle lotte interne tra Timoleonte e Iceta:

 “[...] Adrano è presentato come un dio guerriero, la cui statua di culto suda miracolosamente e agita la lancia all'arrivo del condottiero corinzio, segnalando così agli Adraniti, indecisi se prendere partito per Timoleonte o per il tiranno Iceta, quale sia la giusta decisione da prendere, cioè schierarsi dalla parte del vincitore corinzio. Adranòs, nella sua qualità di Phylatton Daimon (divinità protettrice) interviene poi in un altro luogo  salvando miracolosamente la vita a Timoleonte, che stava per essere assassinato da due sicari di Iceta, mentre sacrificava sull'altare del dio. L'azione di Adranòs è coerente con la sua capacità di identificare e punire coloro che si presentano alla sua sacra dimora in condizioni di empietà o con sacrileghe intenzioni. Plutarco inoltre ci segnala la diffusione del culto anche in altri villaggi dell'isola, diffusione che se da un lato appare […] come l'esito di un confronto politico-ideologico tra il gruppo etnico Siceliota e i Siculi ” (N. Cusumano).

La città di Adrano si scontrò duramente con i Romani, opponendosi alla loro conquista nel 263 a. C., al tempo della prima guerra punica, subendo un pesante assedio che culminò con la totale distruzione della città. Le ricerche archeologiche documentano con chiarezza i segni ed il grado di distruzione inferto alla città greca, di cui rimangono anche i resti della successiva centuriatio romana, che sembrano estendersi fino al Mendolito ed ad altre contrade. La città fu dotata dai Romani di una importante rete stradale, con funzioni di carattere militare ed economico,  di cui parlano l' Itinerarium Antonini e la Tabula Peutingeriana. Il cosiddetto Ponte dei Saraceni, che ingloba in sé elementi di stile tipicamente romano dimostra inoltre che Adrano ritornò nell'Alto Medioevo ad essere una importante roccaforte araba per il controllo strategico degli accessi e degli itinerari  lungo il fiume Simeto.

Nella distinzione amministrativa dei  musulmani, Adrano vide pertanto rafforzata ancora una volta la sua funzione militare. Per i conquistatori arabi il territorio di Adrano fu importante non solo dal punto di vista militare; esso era infatti ricco di acque fluviali e sorgive, e ciò diede un particolare impulso alla fondazione di nuovi villaggi e casali. L'apporto culturale degli Arabi fu notevole sotto l'aspetto dell'agricoltura; essi infatti introdussero nuovi tipi colture come il lino , il cotone gli ortaggi, gli agrumi, il gelso, la canna da zucchero,  il riso, nonché importanti  tecniche agricole per  l'irrigazione dei campi.

La crisi dell’ insediamento arabi di Adrano iniziò con l’avvento in Sicilia dei Normanni. Occupata Messina e le valli dell'alto Simeto e del Salso, i Normanni avanzarono verso Catania, incontrando la resistenza dei presidi dei centri agricoli arabi situati lungo il fiume Simeto. Adrano-Adernò fu conquistata dai Normanni dopo la caduta di un importante casale, chiamato Bulichiel. Nella ripartizione della Sicilia in diocesi voluta da  Ruggero, Adrano entrò a far parte della Contea di Catania, ed essa fu infeudata al vescovo Angerio. In seguito fu assegnata ai membri della famiglia reale, facendo capo ad un vasto territorio comprendente Centorbi e confinante a Sud-est con le terre di Paternò.

Nel corso  della minore età di Ruggero II, la città ed il suo territorio furono oggetto di una vasta operazione di infeudamento delle terre più fertili della Sicilia orientale ai nobili di origine Normanna, spesso imparentati con la regina Adelasia, sotto la reggenza della quale si determinò un largo fenomeno di immigrazione di coloni normanni provenienti dall'Italia settentrionale,  i cosiddetti Aleramici e i Longobardi (detti “Lombardi”). Al popolamento del territorio da parte dei feudatari seguì il richiamo di coloni nelle terre dei monasteri  latini e basiliani (ossia cristiani di rito greco). Come dicevamo, la giurisdizione feudale fu esercitata da famiglie direttamente legate alla dinastia normanna, e si estendeva su un vastissimo territorio comprendente, oltre ad Adrano, anche  Centorbi, Paternò, Capizzi, e altre località.

 Per la organizzazione del suo territorio, Ruggero necessitava di conoscere molto bene la situazione delle proprietà terriere. Di qui nacque l'opera di geografia più importante del Medioevo Siciliano, ovvero Il Libro di Re Ruggero, opera del geografo arabo Al Idrisi, che lo scrisse per diretto incarico di Ruggero II. Secondo Al Idrisi, Adrano era un

 “grazioso casale, quasi una piccola città; essa sorgeva su una cima rupestre, era dotata di un mercato, di un bagno, di una bella rocca e abbondava di acque. Essa era situata ai piedi dell'Etna” (Al Idrisi).

Adrano  in seguito si ingrandì non solo grazie all'attività edilizia  avviata dai grandi signori feudali ma anche dai monasteri. In età moderna Guglielmo Raimondo Moncada nel 1501 ottenne dal sovrano una “licentia populandi” (licenza di ripopolamento). Tale privilegio, promulgato dalla Corona,  consentì a Guglielmo Francesco Moncada di ricostruire e ripopolare Adrano. Questo fenomeno di ripopolamento delle campagne fu un evento epocale per la Sicilia, ed è stato ampiamente studiato. In generale, possiamo affermare che esso fu

“il frutto di una scelta deliberata di popolamento da parte di un Signore; essa era poi sancita dall’autorità con la concessione di una ‘licentia populandi’. Con questo evento storico, la colonizzazione feudale visse la sua epoca aurea nei sessant’anni tra il 1590 e il 1650. Il secentesco ‘ritorno alla terra’ si caratterizzò dunque in Sicilia per questo imponente sforzo baronale di ripopolamento della campagna” (F. Benigno).

Tuttavia, rimarchiamo anche il fatto che la tendenza al ripopolamento delle campagne siciliane fu per la nobiltà locale non soltanto un colossale affare economico, ma anche uno strumento per il raggiungimento di un rango più elevato negli “onori nobiliari”, con un conseguente accrescimento anche del proprio potere politico. Le aumentate risorse economiche derivanti dalle attività industriali e commerciali produssero un processo di sviluppo della città. Le comunità religiose costruirono case, chiese e palazzi, e il fervore religioso legato alla Controriforma diede ampio spazio allo sviluppo dello stile Barocco, che determinò un'attività di costruzione e di ricostruzione degli edifici ecclesiastici grazie alla potenza economica raggiunta in questo periodo dalle istituzioni religiose.

Ad esso si accompagnò l'edificazione delle nuove residenze della nobiltà locale concepita per aderire agli stilemi dello stile Barocco sotto il profilo architettonico e funzionale, e per stabile una nuova armonia con l'impianto urbano. A ciò si aggiunse anche la ristrutturazione dei conventi e dei monasteri, che a partire dalla metà del XVI secolo furono edificati dentro la città. Le nuove costruzioni religiose e civili sorsero all'interno dei quartieri cinquecenteschi e medioevali,  nelle aree libere occupate da orti e giardini.

Dopo il lungo periodo di decadenza demografica ed economica conseguente al terremoto del 1693, che si protrasse anche nel secolo successivo, con l'avvento dei Borboni la città conobbe una nuova espansione edilizia. A partire dal 1750 il recupero demografico provocò l'ampliamento della città verso nord fino all'attuale piazza Leone XIII, con la costruzione del quartiere di S. Filippo, sorto intorno alla Chiesa costruita verso la fine del XVIII secolo; e anche altri ampliamenti furono effettuati nel corso del XIX secolo. Oggi Adrano, per i monumenti storici e il ricchissimo patrimonio archeologico ed artistico è una città con una forte vocazione turistico-culturale, cui si accompagna un paesaggio che sedusse tutti gli osservatori stranieri che, fino dal XIX secolo, ebbero la possibilità di visitare l’antichissima Adranòn.


Fonti:

Al Idrisi, Il libro di Ruggero, a cura di  M. Amari, Roma, Salviucci, 1883, p. 56.

F. Benigno, “Vecchio e nuovo nella Sicilia del Seicento: il ruolo della colonizzazione feudale”, in Studi storici, 1986, n. 1, p. 95.

M. Coppa, Storia dell'urbanistica: Dalle origini all'ellenismo, Torino, Einaudi, 1969, Vol. II, pp. 593 sgg.
N. Cusumano, “Siculi”, in Ethne e religioni nella Sicilia antica, in Atti del Convegno internazionale ( Palermo, 6-7 dicembre 2000), Roma, 2006, pp. 129-130.

P. Orsi, “Adrano e la città sicula del Mendolito”, 1898-1909 (a cura di P. Pelagatti), in Archivio storico siracusano, p. 137.

G. Rizza, “Scoperta di una città antica sulle rive del Simeto: Etna-Inessa?” in La parola del passato, 1972, p. 473 nota.

G. Savasta,  Memorie storiche della città di Paternò, I, Catania, 1905, p. 26 sgg.